domenica 26 gennaio 2020

VITTORIO STACCIONE- Dopo il Savoia, Mauthausen "l'inferno degli inferni!"


Vittorio Staccione nasce a Torino il 9 aprile 1904 da una famiglia operaia.

Fin da piccolo pratica il calcio nei campetti di periferia dove viene notato da Enrico Bachmann, uno dei più forti giocatori dell’epoca, che lo porta nelle giovanili del Torino.





Il 3 febbraio del 1924 esordisce in prima squadra contro l’Hellas Verona; la stagione successiva viene dato in prestito alla Cremonese per poter giocare con continuità.

Alla fine della stagione Vittorio firma per la Fiorentina del conte Ridolfi; per la squadra viola diventa un punto fermo, nel campionato di Divisione Nazionale del 1927-28 gioca 13 partite sulle 14 del torneo.

Proprio quell’anno viene a giocare contro il Savoia a Torre Annunziata l’11 dicembre nella partita che passa alla storia calcistica nazionale come uno dei primissimi casi di combine sportiva e, in quell’occasione, conosce il dirigente Angelo Guidone, il quale gli esprime la propria ammirazione per la bravura e l’impegno in quella zona centrale del campo in cui, il forte mediano viola, riesce a dare il meglio di sé.

Forse, Vittorio rimane stupito da questi complimenti, come certamente rimane affascinato di giocare contro il Savoia, lo squadrone del Sud che tre anni prima rese difficile lo scudetto all’invincibile Genoa, riuscendo a bloccarli proprio dove si trova adesso, su quel campo della cittadina torrese.

Poi, la partita ha il suo epilogo che tutti sappiamo.

In quegli anni Vittorio Staccione è uno dei titolari e punto di forza della Fiorentina.






A Firenze, conosce Giulia Vannetti che diventa sua moglie.

Siamo nel 1930.

Purtroppo il destino è in agguato: in seguito ad un parto difficile la bambina che Vittorio aspetta con ansia nasce già morta e Giulia, in seguito a delle complicazioni durante il parto, muore anch’essa.

Vittorio esce distrutto da questa tragedia e il suo rendimento sportivo ne risente.

Viene ceduto al Cosenza e nel giro di tre anni diventa il beniamino dei tifosi calabresi in serie C.

Nel 1934, finalmente, indossa la maglia del Savoia di Torre Annunziata.

Accogliendo la corte e l’ingaggio proposto da quell’Angelo Guidone, ritornato in società dopo la squalifica relativa alla combine Savoia Fiorentina, Vittorio Staccione cerca, proprio a Torre Annunziata, una nuova occasione per dare uno schiaffo al destino.






Il precampionato viene disputato in modo ammirevole e Vittorio risulta essere il perno centrale di quella squadra che parte per il campionato con buone ambizioni.

La cronaca dell’incontro contro il Campobasso, vinto per 3 a 0, dimostra la validità della squadra oplontina.







Il debutto in campionato del Fascio Sportivo Savoia avvenne al Formisano il 7 ottobre del 1934 contro il Trapani che viene travolto per 7 a 2.

La domenica successiva la trasferta ad Alcano riporta i nostri con i piedi per terra a causa di una sconfitta inopinata.

Ecco, queste furono le uniche due partite ufficiali giocate da Vittorio Staccione con il Savoia.

I bianchi di Torre Annunziata terminano il campionato a centro classifica.

I suoi ideali socialisti e antifascisti sono la ragione principale del suo addio alla società torrese gestita da personalità legate in modo strettissimo al regime.

Personaggi che non rappresentano il modo di pensare e di vivere di Vittorio.

L’addio è inevitabile.

A trent’anni, la chiamata per il rientro a Torino e si ritira dal mondo del calcio, decidendo di accettare un posto da operaio in fabbrica.

Fabbrica Italiana Automobili Torino, si torna a casa, al Nord.

Alla Fiat continua e intensifica la sua passione per gli ideali socialisti e aderisce ai movimenti antifascisti tanto da essere schedato dall’OVRA, la polizia segreta fascista.

Si avvicina alla Resistenza e diviene uno degli organizzatori dello sciopero generale politico e patriottico antinazista del 1° marzo 1944 a Torino, uno dei tanti che in quel mese di marzo, nell’Alta Italia, coinvolsero circa mezzo milione di operai e costarono la deportazione nel “campo di lavoro” di Mathausen, e relativi sottocampi, a circa 1200 di essi.

Per il suo impegno contro il regime il 13 marzo del 1944 viene arrestato insieme al fratello Francesco e portato a Verona.

Successivamente il 28 dello stesso mese, internato nel campo di Gusen, è etichettato come oppositore politico e gli viene tatuato il numero di matricola 59160.

Nel lager Vittorio riesce a resistere per un anno ma in seguito alle profonde ferite, riportate dopo l’ennesimo pestaggio muore il 16 marzo del 1945 pochi giorni prima della liberazione del campo da parte degli americani.

In occasione di un libro a lui dedicato nello scorso anno, ne ho estratto un pezzo che mi ha emozionato non poco:


da: Il mediano di Mauthausen, di Francesco Veltri, Diarkos editore (2019)


“Quando quel pomeriggio di novembre il mediano di Mauthausen entrò sul terreno di gioco non riusciva quasi a reggersi in piedi. Era esausto, pallido in volto, pesava poco più di 40 chili e aveva dolori dappertutto, quasi da non riuscire a dare una priorità alla sofferenza più urgente. Indossava una strana divisa a righe verticali, diversa, palesemente diversa da quelle dei suoi occasionali ed euforici compagni di squadra.

In passato, per giocare a football, aveva vestito casacche a strisce verticali dei colori più innocui o sgargianti, adesso, però, quella strana uniforme aveva un aspetto inquietante e pesava quanto una interminabile vita intera.

Tutti sorridevano intorno a lui, tutti urlavano con ingiustificata superbia, l’uno sull’altro, quella orribile lingua inquisitoria e dal sapore metallico, di cui ormai aveva imparato a riconoscere il suono macchinoso e violento, simile a quello di un tamburo che non la smette un secondo di sbatterti dentro il suo ciclico frastuono, colpendo le poche ossa che, chissà per quale inutile mistero, riescono ancora a tenerti in piedi.

Il mediano di Mauthausen in quello strano e freddissimo pomeriggio di novembre rivide un pallone dopo anni di chissà cos’altro, ma non seppe bene cosa farsene. In quel momento gli sembrò un oggetto quasi sconosciuto, ostile. Forse in un tempo non troppo lontano avrebbe avuto la forza e la voglia di calciarlo in avanti e corrergli dietro come un pazzo innamorato.
Ma ora non più.

Ora, di quella folle partita, nessuno, lui per primo, avrà voglia di ricordare un solo dettaglio, un solo tiro in porta, un solo gol. Di quella partita surreale, forse rimarrà soltanto il silenzio o un rimbombo sordo e spaventoso, capace di annientare persino l’ultimo sogno che resta: uscire vivi da quel campo maledetto, uscire vivi da quel campo maledetto...

Un campo circondato di neve, di fango, di cani addestrati alla rabbia, di baracche, di enormi mura in pietra e di reti iniettate di una corrente elettrica velenosa. Un campo di odio travestito ipocritamente da terreno di gioco.

E allora è meglio che la tua partita finisca qui. È meglio lasciare in quel posto il mediano che hai dentro e trascinare il tuo destino verso l’ultimo pezzo di strada. È più conveniente liberare per sempre i ricordi e la malinconia. Fa soffrire meno.

Lasciali andare i ricordi, lasciali lì, che tanto qualcuno prima o poi li ritroverà e proverà a immaginarli e a raccontarli con i tuoi occhi.

Resta fermo nella tua posizione, mantieni il tuo ruolo di centromediano come sei capace solo tu lì in mezzo, e fai il minimo indispensabile per non crollare, per non far capire agli altri giocatori-soldati di questa stupida competizione che stai crollando, per l’ultima volta.

Lasciali giocare in pace, beati loro, fino al triplice fischio finale. E poi, che vada come deve andare.”







In memoria di Vittorio Staccione I, il 16 giugno del 2015, all'interno dello Stadio Zini di Cremona è stata dedicata una lapide in marmo contenente un’opera in bronzo dello scultore Mario Coppetti, come simbolo di tutti quegli atleti che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, hanno pagato con la loro vita l'opposizione al regime fascista.






Il 22 gennaio 2019 è stata posta in Via San Donato 27 a Torino (ultimo domicilio prima dell'arresto del 12 marzo 1944), una pietra d’inciampo a lui dedicata, a perenne ricordo del suo sacrificio in nome della libertà.




venerdì 3 gennaio 2020

"Baff i fierr": la dignità di un uomo.




Erano i Bevilacqua e gli Abbruzzese, a rappresentare quella minoranza identificata a Torre come "i ciavarune".
Abitavano quasi tutti alla provolera tra Vico Gelso e Vico Rosselli.
Gli altri ceppi erano in largo Fontana e quartiere carceri.
E ancora tra Via Fuoco, Via Zingari e Via Stamperia.
La loro arte era la lavorazione degli scalpelli e le "trombe degli zingari" ovvero le mollette da bocca, strumento musicale usato anche in Sicilia.
Non esisteva utensile migliore dei loro scalpelli.
I loro attrezzi erano ottimi per materiale (usavano le balestre) e per la tempera che sapevano fare alla perfezione.
Lui si metteva sotto l'arcata di uno dei ponti di fronte al macello vecchio e spesso, da bambini, restavamo incantati a vederlo lavorare il ferro incandescente.
Con la sua maestria costruiva anche ferri per gli zoccoli dei cavalli, tenaglie, zappe ecc..
Era straordinario vedere cosa riusciva a costruire solo con un martello e un incudine.

Aveva poco o nulla.
Con quello che riusciva a lavorare si accontentava di un pezzo di pane.
Ricordo di averlo visto, una volta, in una di quelle giornate gelide d'inverno, intirizzito dal freddo, intento a completare il suo compito con grande impegno.
Con dignità.
Dignità: non ci sono scuole per conseguirla.

Il ricordo di Mons. Raffaele Russo.

Il Monsignor Raffaele Russo, Rettore della Basilica della Madonna della Neve di Torre Annunziata, ci ha lasciato. Ultima tappa del suo perco...