domenica 30 ottobre 2022

Eduardo Ferrone, il " Giornalista del proletariato”.








Eduardo Ferrone nacque a Torre Annunziata il 7 settembre 1923, da Gaetano e Giuseppina Savino.

Fin dalla giovane età iniziò ad apprendere e valorizzare gli ideali socialisti e antifascisti, convinto assertore dell’evoluzione della classe operaia a seguito dell’alfabetizzazione e l’erudizione.

A sedi anni era già apprendista operaio in fabbrica, continuando instancabilmente a studiare alla fine del turno di lavoro.

Ottenne, in seguito, l’impiego alla Deriver dove lavorerà fino al raggiungimento della pensione, svolgendo anche il ruolo di sindacalista della UIL.

Il matrimonio con Maria Turri e la nascita dei figli Giuseppina, Gaetano, Angela, Olimpia e Vincenzo completò il suo percorso familiare.

Padre esemplare, trascorreva ogni istante del tempo libero divertendosi con i propri figli. 

È stato articolista sportivo e sindacale de "La Voce della Provincia".

Ha collaborato, inoltre, con "Corrispondenza Socialista", "Giustizia", "Enne due", "Cronache Aziendale", "Il Gazzettino Vesuviano".

È stato Con-direttore di "Quindicinale Sport".

Giornalista attivamente impegnato sui temi dei diritti civili e della giustizia sociale, tanto da essere etichettato come “giornalista proletario”, riuscì a ritagliarsi una buona reputazione anche con argomentazioni sportive riguardanti la squadra di calcio di Torre Annunziata, il Savoia.

Come ricordato dai familiari, spesso rientrava a casa dallo stadio con qualche giocatore o allenatore al seguito che ospitava a casa sua per una cena in famiglia.

Tra i tanti si ricordano Mario Trebbi, Gaspare Boesso, Crocco, Villa ecc.…  

Il 2 ottobre 1976, si ripresenta con un articolo dalle pagine del quindicinale "La Voce della Provincia", in cui illustra il suo progetto nel raccontare il calcio torrese dalle pagine del giornale oplontino, spiegando le ragioni del ritorno: “Da questo numero iniziamo la nostra corrispondenza per “La Voce della Provincia”, interessandoci dello sport. Del Savoia, in particolare. È un po' come ritornare al primo amore, in quel periodo di cordialissima collaborazione che coincise con la seconda promozione in serie C. Memore di quei graditissimi ricordi ritorno nella famiglia della Voce per offrire i miei servizi sul Savoia. Da questo numero ha inizio un’inchiesta fra gli sportivi. L’iniziativa ha mosso i primi passi alla vigilia del campionato. Un giro, quasi una kermesse, in Circoli, ritrovi, bar, Cral Aziendali, per un contatto dal vivo con la massa dei tifosi.”   

Il contatto con la persona per lui era fondamentale, come era alta l’attenzione con cui ascoltava il parere del suo interlocutore, dal più istruito all’analfabeta.  

Con la rubrica "Un tuffo nel passato" raccontò fatti e retroscena, correlate da interviste, di calciatori rimasti nella leggenda dell'epopea savoiarda, tra cui i mitici fratelli Giraud, Salvatore Armando detto "Pecchitto", Secondo Rossi, Ercole Castaldo. 

La rubrica ebbe un notevole successo ma a causa di qualche nuovo screzio con la Proprietà del giornale non ebbe ulteriore seguito.

Eduardo era legato da anni di profonda amicizia e collaborazione con un altro personaggio di valore del giornalismo torrese, Leonardo Sfera.

Dall’inizio del 1980, nel corso di sei anni, diede alla stampa tre libri che sono stati considerati dei preziosi contenitori ricchi di spunti e riflessioni per gli autori locali che si sono cimentati nella scrittura nel campo dello sport, della politica e della vita sociale.


"Il calcio sui maccheroni", editore D'Amelio, 1980.

"Specchio a mezzogiorno- Le radici del malessere" editore Istituto Anselmi, Labriola, 1983.

"Tra il bianco e il rosso", editore Istituto Anselmi, Labriola, 1986.    

"Il calcio sui maccheroni" venne alla luce dopo cinque anni di ricerca in cui l'autore sviluppò la sua inchiesta negli ambienti locali raccogliendo storie, interviste, racconti, aneddoti, scritti, fotografie e ritagli di giornale prodotti alla causa il piu' delle volte dagli stessi tifosi savoiardi.

L'autore lo scrisse consapevole nel non voler raccontare solo una parte della storia del Savoia, anche per rispetto della sua preparazione personale, ma volle consegnarci un’opera a 360° che riguardasse la storia di Torre Annunziata, o almeno una parte di essa, associando gli avvenimenti di natura socio-economica con le gare sportive e gli uomini che gravitavano nell’orbita della blasonata​ e gloriosa società Torrese.

Il frutto di questo lavoro fu assolutamente straordinario, un libro ricco di ricordi e rivelazioni. 

Tutto venne raccontato in maniera pulita e avvincente, una sequela di fatti ed eventi in costante parallelo tra le origini del Savoia con le prime gare "vere" degli Anni Venti e l'avvento del fascismo che con i suoi “ducetti” locali pretese di gestire uomini, denaro, società e calciatori, fino ad arrivare agli anni 80.

Nel 1983, con "Specchio a mezzogiorno- Le radici del malessere", approfondì con analisi lucida e diretta le problematiche di una città passata in pochi anni da valori assoluti di realtà sociale, culturale ed economica a “malata cronica” con il suo numero esorbitante di disoccupati, di aziende chiuse, o prossime alle dismissioni, di famiglie disagiate, in cerca di abitazione, di analfabetismo dilagante, di criminalità incalzante. Nella ricerca delle responsabilità non fermò il suo atto d’accusa sulla classe politica che aveva governato Palazzo Criscuolo negli ultimi cinquant’anni ma andò oltre, accusando i centri di potere, le forze mafiose, il sistema politico-affaristico, anticipando nei tempi le inchieste giudiziarie italiane che di lì a pochi anni decapitarono una generazione di “politici” corrotti e collusi, anche nella nostra città.

Un autentico atto d’accusa che aprì occhi e mente anche ai ceti meno abbienti, a coloro che, almeno in apparenza, non sapevano.          

Tre anni dopo, nel 1986, con "Tra il bianco e il rosso", approdò al completamento del suo immane lavoro durato circa un decennio con analisi che rispecchiavano fedelmente il ruolo di Torre Annunziata come punto di riferimento delle provincie meridionali, indicando proprio la “questione meridionale” quale principale battaglia da combattere e vincere per “il decollo socio-economico-culturale” di tutto il paese.

Senza questo fondamentale approdo ad una condizione di gestione politica tesa a migliorare le condizioni sociali, ammonisce il Ferrone, l’Italia non riuscirà mai a portarsi al livello delle piu’ progredite nazioni europee, è sarà destinata a rimanere il paese “dell’instabilità e del malessere, della criminalità e del terrorismo ideologico”

Anche in questa occasione aveva ragione.

Il libro è un’avvincente storia di lavoro, operai, personaggi e cronaca che parte da Oplonti e termina con l’omicidio di Giancarlo Siani, riassumendo la storia di Torre Annunziata nell’arco dei secoli quando da luogo ideale di soggiorno per gli antichi romani si ritrova, dopo duemila anni, ad essere campo di battaglia per i nuovi “barbari”, assetati di denaro e potere, incuranti della bellezza e delle meraviglie che la natura aveva donato alla nostra città, anzi facendone sfregio.

Negli anni Ottanta fece parte della delegazione composta da personalità politiche e culturali di Torre Annunziata che furono ricevute in visita al Quirinale per incontrare e salutare il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, di cui era suo grande ammiratore riconoscendo in Pertini quegli ideali di socialismo che gli facevano onore.  

Era in procinto di preparare un quarto libro quando venne inesorabilmente colpito dal male incurabile.

Eduardo Ferrone morì il 31 ottobre 1990, a soli 67 anni.


lunedì 17 ottobre 2022

VENCHI UNICA- Il ricordo di un sogno.

VENCHI Unica ( Torre Annunziata 1943).

Io, mia madre ed all' interno si intravede mio nonno Ernesto Avallone.







Di Gioconda Galluccio


La Venchi Unica era una rinomata Azienda di Torino che aveva filiali sparse in tutte le più importanti città d'Italia e dato che Torre Annunziata attraversava momenti di grande benessere economico, aveva potuto ospitare un'elegante filiale. 

l negozio della Venchi Unica di Torino era stato dato in gestione ad un mio parente carissimo negli anni 30 e ha avuto lunga vita a Torre Annunziata.

La Città che aveva mantenuto il suo decoro durante i bombardamenti più furiosi, cadde in ginocchio. 

La virtuosa laboriosità dei cittadini fu cancellata in un attimo.

Le saracinesche divelte, i calcinacci che imbrattavano il raso bianco dei ripiani delle vetrine, gli specchi rotti e i liquori che gocciolavano dalle bottiglie infrante.

Già durante i bombardamenti della guerra, il Negozio tremava e si fuggiva nel ricovero per una porticina alle spalle del Banco di Roma.

Mentre mia madre pregava con altre signore, io giocavo con una bambina di cognome Tamburini. 

Ricordo solo che era carina

Che cos'è la guerra per una bambina? 

Oltre che dolore, è oltraggio alla memoria.

Poi vi fu lo scoppio di quattro carri di munizioni del 21 gennaio del 1946.

' Ntonuccio, il fattorino con le spalle appoggiate al portone dell'antico palazzo del Banco di Roma, guardava il Negozio.    I calcinacci imbrattavano il raso bianco delle vetrine.

Dalle mensole colavano i liquori delle bottiglie spaccate e schegge di specchi e cristalli, arrivavano fino al centro della Piazza. 

A 'Ntonuccio sembrava di fissare l' inferno. 

Solo chi è infinitamente malvagio e non riesce a recepire l'armonia del Creato, anela alla sua distruzione.

Il fattorino piangeva asciugando la faccia con la manica della giacca e il suo viso ne usciva impolverato di calce bianca, così che pareva un povero pulcinella morente.

Piangeva perché la Signora della Venchi Unica, entrando nel retro bottega ne era uscita con la scopa in mano e gli faceva cenno di avvicinarsi per spazzare il pavimento come tutte le mattine.

Il pover' uomo gridò e poi fuggì lungo il Corso, chillo d' a parte 'e vasce, quello che portava alla Salera, ai Pastifici, alla chiesa di S. Luigi che non c' era più.

Come aveva amato quei luoghi.

Ecco, l’ultima scena che mi si presenta alla memoria stringendomi il cuore, è quella del giorno dopo lo Scoppio. 

Sarebbe rinata la città con la stessa gente che aveva seminato, raccolto e usato le risorse di questa terra miracolosa per la divina arte conserviera e quella della pastificazione?

 Nel 49 il Negozio c'era ancora. 

Non vendeva paste fresche, ma scatole di cioccolatini, confezioni di Nugatine e tanta deliziosa ghiaia della Dora cioè confettura di mandorle tostate somigliante alla ghiaia di fiume, levigata dall'acqua e c'era pure la Merendina Unica. 

La vetrina centrale ampia e luminosa, offriva alla vista, nei pirottini ben messi nei vassoi, i Baci di cioccolata con la ciliegia, altra specialità della Venchi. 

Ai lati dell' esposizione centrale, c'erano due vetrinette alte e snelle con bottiglie di liquore messe in bell'ordine. 

Sullo sfondo c'era lo specchio longitudinale che creava rifrangenze di colori. 

La foto non ha lo splendore dei miei ricordi.


domenica 9 ottobre 2022

Giuseppe Ottone- Il Servo di Dio

Un’infanzia abbandonata

Nacque il 18 marzo 1928 a Castelpagano, in provincia di Benevento, da genitori ignoti. La giovane levatrice del paese provvide a registrarlo all’Ufficio competente il 23 dello stesso mese, con il nome di Giuseppe e il cognome Italico, dopo che, il giorno precedente, era stato battezzato nella Chiesa del SS. Salvatore di Castelpagano. Il Comune provvide a farlo accogliere nel Brefotrofio Provinciale di Benevento, con i pochi oggetti che gli erano stati trovati addosso: una fascia di tela, un pannolino e una cuffia.
In seguito si seppe che Giuseppe era il frutto della relazione extraconiugale di una donna di Castelpagano, il cui marito era emigrato in Argentina. Dopo aver appreso della duplice infedeltà della moglie, che dopo il bambino ebbe anche una figlia, non volle tornare; la coppia aveva già un altro bambino legittimo. La donna, di cui omettiamo il nome, voleva abortire, ma un’amica di famiglia la convinse a portare avanti la gravidanza; la stessa amica fece da madrina di Battesimo al neonato.

L’accoglienza dei coniugi Ottone
Giuseppe non restò per molto al Brefotrofio di Benevento, perché il 22 novembre dello stesso anno 1928 venne affidato in allevamento esterno ai coniugi Domenico Ottone e Maria Capria, di Benevento. Non avevano figli e volevano adempiere un voto pronunciato dalla signora, quindi chiesero un bambino da allevare con amore e da poter crescere come un figlio loro. 
I coniugi decisero di trasferirsi a Napoli nel timore che in seguito la madre naturale reclamasse il piccolo. Lei, dopo aver appreso il fatto, si legò amichevolmente con i genitori adottivi e seguì a distanza la formazione del figlio: commossa e contenta, si definiva «indegna madre». 
La religiosità della mamma adottiva, non ostacolata dal marito, divenne per Giuseppe un sicuro modello, al quale egli affettuosamente s’ispirava per trovare un orientamento della propria vita. Qualche tempo dopo la famiglia Ottone si trasferì definitivamente a Torre Annunziata, terra di mare, posta lungo la costa che si delinea sotto le pendici del Vesuvio.

Un bambino buono a casa, in chiesa e a scuola
Peppino, come fu presto soprannominato, crebbe sincero, deciso, ricco di qualità e di virtù. Andava volentieri a scuola senza mostrarsi mai scontento ed era disciplinato e armonioso con tutti. Prima di entrare a scuola passava in chiesa, senza curarsi delle prese in giro da parte dei compagni, per una breve visita a Gesù nel Tabernacolo. 
Dal 1934 fino al 1939 frequentò la scuola elementare, poi venne ammesso all’Istituto Tecnico Commerciale “Ernesto Cesàro”. A scuola era il primo della classe e fu sempre promosso.
La madre adottiva faceva la smacchiatrice, il padre invece il cameriere; lei di indole buona, pia, paziente, lui invece collerico, irascibile, spesso beveva vino più del necessario. Giuseppe cercò quindi di aiutare la mamma a sopportare i suoi gesti violenti. Di nascosto prese ad aiutare alcuni poveri con frequenti elemosine, utilizzando i suoi piccoli risparmi e anche dando le sue merende.

La religiosità di Peppino
Con grandissimo fervore, a sette anni, ricevette la Prima Comunione il 26 maggio 1935, nell’Arciconfraternita del SS. Rosario. Da allora si accostò all’Eucaristia con frequenza e con la passione per una vita santa.
Osservò assiduamente le pie pratiche dei primi nove venerdì al Sacro Cuore e dei 15 sabati alla Madonna del Rosario di Pompei. Ogni primo venerdì del mese era presente in chiesa già alle 5.30, incurante del freddo, sempre sorridente, tra alcuni operai dello Spolettificio militare, una grande occasione di lavoro per il territorio di Torre Annunziata. Si recava spesso in bicicletta alla vicina Pompei, per pregare davanti alla Vergine del Rosario, di cui era molto devoto, nel Santuario fondato dal beato Bartolo Longo.

Passatempi e desideri
Pur essendo serio, studioso, religioso, ubbidiente, era soprattutto un ragazzo con tutti i desideri e gli svaghi tipici della sua età. Ad esempio, gli piacevano i giornalini di storie avventurose: ne leggeva a centinaia dopo lo studio, scambiandoli con altri ragazzi, con cui giocava nei momenti liberi.
Il suo sogno più grande era quello di fare, da grande, l’Ufficiale di Marina, come del resto lo era e lo è per tanti ragazzi torresi, che da secoli intraprendono la carriera o i mestieri marinari.

Adozione definitiva
Dopo circa undici anni di affidamento esterno alla famiglia Ottone, il 26 giugno 1940 il giudice tutelare della Pretura di Torre Annunziata concesse l’affiliazione di Giuseppe, che così cambiò il cognome da Italico in Ottone.
In piena Guerra Mondiale, con l’alternarsi delle vicende politiche, che creavano incertezza e miseria, il padre si guadagnò il soprannome di “Mimì il fascista”. Oltre a quella tribolazione, la mamma Maria Capria dovette ricoverarsi a Napoli per subire una duplice operazione chirurgica molto delicata, specie per quei tempi. Giuseppe rimase molto scosso ed angosciato, per l’affetto davvero filiale che nutriva per lei.

L’offerta della vita
Il 3 febbraio 1941, giorno dell’operazione in clinica, mentre percorreva corso Vittorio Emanuele II con un gruppo di amici, trovò a terra un’immagine della Madonna di Pompei. La raccolse e la baciò devotamente, esclamando: «Madonna mia, se deve morire mamma, fai morire me».
Qualche minuto dopo, divenne pallido e cadde svenuto a terra. Gli amici e un vigile urbano lo soccorsero: fu trasportato al vicino Ospedale Civico e venne accolto alle 15.30 al Pronto Soccorso «in stato di incoscienza con polso e respiri frequentissimi…».
La madre ritornò in tutta fretta dall’ospedale napoletano, senza subire la duplice operazione: per il dolore, i capelli le erano diventati completamente bianchi. Lo assistette per tutta la notte, recitando il rosario, mentre si disponeva ad accettare la volontà di Dio per sé e per quel suo figlio tanto amato.
Peppino non riprese conoscenza: morì alle quattro del mattino del 4 febbraio 1941, a quasi 13 anni. Il suo sacrificio, offerto per la mamma tanto amata, fu accettato dal Signore: la donna fu guarita istantaneamente e continuò a vivere in buona salute fino al 1983, quando morì a 88 anni. Il marito, invece, morì nel 1975.

La fama di santità e il processo di beatificazione
La stima che Giuseppe godette in vita presso i coetanei, i genitori, il parroco e i suoi maestri è andata sempre più aumentando con gli anni, tanto da mutarsi in fama di santità. Il processo informativo diocesano per l’accertamento dell’eroicità delle sue virtù iniziò quindi a Napoli il 6 aprile 1962 e si concluse il 4 marzo 1975.
I suoi resti mortali, inizialmente inumati nel cimitero della città, furono traslati il 25 ottobre 1964 in una cappella laterale della Parrocchia Santuario dello Spirito Santo, detta comunemente del Carmine. Alla traslazione partecipò un gran numero di fedeli e di autorità, sia da Torre Annunziata, sia da Castelpagano.


Traslazione del cimitero di Torre Annunziata alla Chiesa del Carmine- 

25  Ottobre 1964

*Testo di ANTONIO BORRELLI- TRATTO DAL SITO "SANTIBEATI.IT" 

lunedì 3 ottobre 2022

Pietro Romano, "Giosuè"- Il Mago del Presepe.






Pietro "Giosuè" Romano nasce a Torre Annunziata il 28 aprile del 1913.

Affettuosamente chiamato Giosuè dagli amici, è impiegato negli Anni Trenta al Comune di Boscoreale e, successivamente, riceve l'incarico dalle Ferrovie dello Stato.

La sua attività lavorativa, prima della meritata pensione, lo porta a diventare l'ultimo Capostazione operante alla Stazione di Torre Annunziata Centrale.

Appassionato d'arte e di creatività fin dalla giovane età, trova estro e ispirazione principalmente in composizioni religiose, perfezionandosi nel corso degli anni nella realizzazione di diorami e presepi.

Lo stile spagnolo delle sue creazioni è frutto anche del lavoro di apprendimento ricevuto da padre Galceràn e Juan Mari Oliva, entrambi spagnoli, ma che hanno molto lavorato in Italia.

Inesauribile promotore di iniziative artistiche, in particolare quelle relative all'esposizione dei presepi, fonda alla fine degli Anni Sessanta la sezione torrese dell'Associazione "Amici del Presepe", aggregando intorno all'ambizioso progetto culturale e creativo un gran movimento di amici e conoscenti che lo seguono in ogni occasione.

La naturale disponibilità e un carattere aperto e generoso lo portano a diventare punto di riferimento anche all'interno della sfera parrocchiale.

Ormai Giosuè è ritenuto il mago dei presepi, allestiti in maniera spettacolare all'interno delle chiese grazie alla collaborazione di don Pasqualino Pagano.

Innumerevoli sono le manifestazioni a cui partecipa con lavori di assoluto valore, pregevoli e preziosi ricavati dal suo ingegno e da una spiccata vena artistica mai sopita, ispirati alla tradizione artigianale della scenografia presepiale settecentesca.

Pietro "Giosuè" Romano muore tragicamente il 3 ottobre 1992 a seguito di ferite riportate dopo essere stato investito da un motociclista, mentre era in compagnia della moglie Emanuela, anch'essa rimasta coinvolta nel tragico scontro.   


Don Luigi Bellomo, il cuore del tifo torrese.

*Un tributo a Luigi Bellomo:  il cuore del tifo torrese* Torre Annunziata perse uno dei suoi pilastri sportivi e cittadini con la scomparsa ...