domenica 2 luglio 2017

TRA PATRIZI E PLEBEI, IL RICORDO E LA STORIA DI TORRE ANNUNZIATA!

Questo articolo, straordinario, pubblicato sulla "La Voce della Provincia" del 1995, non avrebbe bisogno di nessun commento di introduzione.
Infatti, non riesco ancora a credere come sia stato possibile all'autore, Gennaro Fabbrocino, condensare in queste righe, alcuni dei suoi ricordi degli anni di gioventu', districandosi tra l'eterna distinzione che affliggeva, anche all'epoca, la nostra Torre Annunziata, e cioè la "distanza" tra i patrizi, i ricchi, i signori,  e i plebei, gli operai, i poveri.
I ricordi di Fabbrocino si concentrano sulle famiglie facoltose del tempo, lui dall'altra parte della barricata, riuscendo a farci vivere, come fosse oggi, quegli attimi, quei momenti rimasti impressi nella sua memoria.
E riesce a farci apprezzare, in forma diversa, quelle famiglie altolocate, facendoci scoprire come, già da allora, esisteva la "diffidenza", quasi la proibizioni, per i giovani figli dei signori, di oltrepassare la parte occidentale della città per portarsi verso il fulcro commerciale di essa, la zona orientale, fosse anche solo per andare al cinema o fare una passeggiata. Ancora oggi, come allora,
cento anni dopo, distinguiamo Torre nord da Torre sud...
Un passaggio significativo della grande personalità del Fabbrocino si ritrova quando, confrontando il diverso modo di condurre la vita sociale, egli riesce a trasmettere emozioni importanti nell'affermare che "...loro erano il nuovo, il moderno. Io non li invidiavo. Erano troppo distanti da me. Si invidia il vicino, non il lontano."
Ecco, questa testimonianza è bellissima. In queste frasi posso solo intuire che alcune delle prerogative che contribuirono al successo e al miglioramento economico e sociale della mia città, all'inizio del secolo scorso, siano stati il comportamento, il rispetto dei ruoli, l'intelligenza, il lavoro di Gennaro Fabbrocino e di tantissime altre persone come lui, umili e plebei...


GENNARO FABBROCINO





LA VOCE DELLA PROVINCIA -GENNAIO 1995




Erano gli Anni Trenta...       


Nella mia immaginazione di adolescente allevato in una famiglia operaia, una linea invisibile divideva il quartiere orientale di Torre da quello occidentale. In questo abitavano i signori, i rampolli della borghesia dorata, i distinti, gli eleganti: i Camera, i Giraud, i Carotenuto, i  De Simone, i Gerardi, i Pennasilico, gli Iacono, i Prisco, i Vitelli,  i Porcelli, i Vitagliano. 

A me apparivano come dovevano apparire, nella Roma dei Cesari, i patrizi togati ad un plebeo della Suburra. Spiccavano per posizione sociale, per censo, per educazione, per il linguaggio, per le abitudini di vita. Giocavano a poker. Facevano il bagno nelle acque esclusive del Lido Azzurro.

Erano il nuovo, il moderno. Io non li invidiavo. Erano troppo distanti da me. Si invidia il vicino, non il lontano. Quando Torre non era ancora un ibrido urbanistico e sociologico, quando i plebei erano plebei e i signori erano signori, i signori erano loro. Lo erano, non lo davano a vedere. Oggi il popolo borghesizza, il borghese di sinistra plebeizzano. Contemplavo loro, come l'astronomo le costellazioni.

I Camera. Tutti nomi propri bisillabi: Leda, Bina, Siro, Ivo, Rito. Solo un uomo dalla personalità potente, autorevole e costruttiva, ma anche estrosa poteva imporre tali nomi ai propri figli. Ogni mattina varcavo la mia linea immaginaria che coincideva col meridiano della Casa del Fascio, entravo nella... Città Proibita, dove era ubicato il Ginnasio e scorgevo il padre dei Camera. Sentivo l'impulso, non servile ma rispettoso, all'inchino. Lo reprimevo, perché l'imponente signore mi intimidiva. Abitavano in una casa che era un palazzo.


I  Giraud. Non sono mai stato un tifoso, non so perché, ma quando leggevo, nelle locandine esposte nelle vetrine dei negozi i loro nomi di battaglia, ebbene mi esaltavo: Giraudo I, Giraud II, Giraud III. Come una dinastia regale, I Giraud. Un ordine cavalleresco. I giostranti del campo Formisano. I campioni del Savoia.


La famiglia Jacono abitava in una villetta dell'Oncino, quando l'Oncino era un romantico villaggetto al margine del bosco Filangieri. Entravo nell'Oncino e mi sentivo un bracconiere, un violatore del blocco, un apolide. Arrossivo, passando davanti al portone (privato!) della villetta dove sapevo che abitava e Emmina Jacono che era alta, bionda botticelliana.


I Prisco! Erano l'aristocrazia ineguagliabile, inaccessibile. Sdegnavano il dialetto. Non tenevano mai lo sguardo rivolto al suolo. Indossavano eleganti calzoncini corti o pantaloni alla zuava. Davanti a Michele, ammutolito, perdevo la parola.

I pull-over e il trench che sfoggiavano i Carotenuto, i Gerardi, i Pennasilico, i Vitelli, i Porcelli! Portavano nelle strade l'ultima moda. Adoperavano stilografiche marca Parker. Sapevano tutto quanto attiene allo sport, al cinema. Non "scendevano" mai nel quartiere orientale, mai nella platea del Moderno o del Politeama. Guardavano i film dal loggione o dalle "barcacce". Chi sa quanti romanzi di Salgari e di Verne possedevano!

Quando incontravo nelle strade occidentali Bina Camera o Ermina Jacono o Cecilia Spanò (pompeiana iscritta al Ginnasio) mi confondevo. Mi intimidivano, mi facevano sentire plebeo, passando davanti a me come altere dee dell'Olimpo. Non erano nè alteri nè superbe,  ma solo diverse, distanti.

 Tommaso Hobbes, soffocato dalla disperazione, fa proprio il mondo di Plauto: " Homo homini lupus", ossia "L'uomo è un lupo per un altro uomo". Per lui, è lupo sia l'aggressore sia l'aggredito. Si riferisce all'uomo biologico (philum dei Vertebrati, classe dei Mammiferi, genere homo). È allo Stato leviatano assegna il compito arduo di impedire che i lupi si sbranino irrimediabilmente. Il classismo marxista, come ogni ideologia ribellistica, sdoppia l'uomo è colloca l'Homo lupus nella classe dominante. Riassunto epigrammaticamente, il materialismo marxista si condenserebbe nel motto "Dives lupis pauperi", ossia il ricco è un lupo per il povero.
Chi conosce i poveri, sa che, quando gli torna utile, il povero è un lupo per un altro povero. I poveri non sono quelli idealizzati da Dickens ho da Tolstoi, ma quelli realisticamente colti da Emile Zola, che non assolveva certamente la borghesia. La "cortina di ferro" che separa il Bene dal Male non passa tra le classi sociali (tra l'altro solo arbitrariamente delimitabili), ma dentro la coscienza individuale degli uomini, ricchi o poveri, patrizi o plebei, borghesi o proletari.

Ma andatelo a dire a Bertinotti...

 Per me, cominciò negli anni Trenta. Quando intrapresi il viaggio senza ritorno che ci fa emigrare dall'Eldorado della adolescenza. Purtroppo, preso il treno sbagliato. Per fortuna, sono sceso alla penultima fermata. A Damasco. Però, devo dirlo, anche quanto predicavo la lotta di classe, odiavo il capitalismo (inteso come una impersonale forma sociale) non i borghesi in quanto persone. Come odiarli? Sappiamo tutti che fu la borghesia occidentale a creare il "dolce stil novo", il Romanico, il Gotico, il Rinascimento, il Barocco. Sono le classi alte che nella storia, in tutte le epoche, creano e promuovono l'Arte. E il salario che esse pagano per il peccato originale della diseguaglianza sociale. È poco? L'unico rimedio alle inestirpabile sofferenza umana e l'Arte, che è inscindibile dalla Religione, perché solo la religione salva gli uomini dalla disperazione. Se fossimo tutti socialmente uguali, nessuno di noi sarebbe un artista.

Il Bello della mia adolescenza fu incarnato dai miei coetanei di ambo i sessi, che erano diversi da me: i Camera i Carotenuto, i De Simone, i Giraud, i Gerardi, gli Jacono, i Pennasilico, i Prisco, i Porcelli, i Vitelli, i Vitagliano. Essi fecero palpitare il mio senso estetico. Il passato è più importante del futuro. Siamo quelli che fummo. Scorre il tempo, non il nostro essere interiore. Semmai scorrono e passano, nell'alveo immutabile della nostra psiche individuale, le idee politiche, le mode letterarie, gli hobby.
 Dicono che il tempo proceda come una freccia, che la vita è simboleggiata dalla semiretta. A me sembra, a volte, che la mia vita sia stato un percorso circolare. Avvicinandomi alla fine terrena, mi ritrovo nello stato emozionale degli indimenticabili Anni Trenta. Scendendo a Damasco, ho ritrovato la situazione esistenziale dalla quale ero partito. Com'era bella Torre Annunziata nel 193?..

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