Una Befana penosissima quella mattina del 1954 per i
lavoratori dell’ILVA di Torre Annunziata.
La decisione della direzione nazionale prevedeva il
licenziamento di 140 operai nella solo cittadina oplontina.
Si coordinarono in pochi momenti le associazioni di massa,
le organizzazioni sindacali ed economiche di categoria, i partiti di ogni
fazione.
Tutti si schierarono con i lavoratori colpiti dal mortale
annuncio.
I commercianti, quasi tutti, abbassarono le saracinesche in
segno di solidarietà.
La direzione dell’ILVA cercò di addolcire la pillola con una
vaga promessa di riassunzione dei licenziati nella nuova azienda che stava
aprendo i battenti, la DALMINE.
Ma si trattava di un diversivo per mascherare le reali
intenzioni: lo smantellamento dell’ILVA, che faceva parte del complesso IRI.
In pochi anni, fino a quel giorno, erano già stati licenziati
800 operai.
La conferma arrivò con l’ordine di spegnere un forno di
marca MATIN e la chiusura di un vecchio treno laminato di cui si aspettava la
sostituzione da tempo.
I lavoratori non abboccarono alle promesse per il discorso “assunzione
DALMINE”.
Decisero la loro linea: nessun licenziamento all’ILVA mentre
per le assunzioni alla DALMINE dovevano essere confermate le quote per i senza
lavoro che attendevano da anni il mantenimento degli impegni assunti dal
governo democristiano nel corso degli anni, in particolare dall’On. Rubinacci
eletto nel locale collegio senatoriale.
Il sindaco Pasquale Monaco assunse all'istante posizione in
questa lotta che avrebbe intaccato, ancora una volta, la stabilità sociale.
In quella stessa giornata si svolse una riunione del
Comitato cittadino con gli on. Palermo, Caprara, Mazza, Napolitano e D’Ambrosio.
Il Parlamento si pronunciò contri i licenziamenti mentre si
iniziò a studiare la riforma dell’IRI.
Al culmine della beffa la notizia che in un convegno della
CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), in preparazione a Napoli,
si sarebbe parlato dell’aumento del consumo dell’Acciaio nell’Italia meridionale.
L’ottimismo delle promesse e la realtà drammatica.
Chi aveva ragione?
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